mercoledì 15 agosto 2012

Ciao Ale...

Questo non è né un racconto di fantasia, né una riflessione sull’amore, la musica, la poesia, i massimi sistemi… Questo è il ricordo triste e forse un po’ patetico di uno sciagurato, che non c’è più. Per gli Aretini la figura è senz’altro nota, facendo parte di quei personaggi che, nelle varie epoche, hanno caratterizzato e caratterizzano la quotidianità di una sonnolenta cittadina di provincia, dove ancora lo “struscio in centro” consente di incontrare le solite facce, i soliti volti. Alcuni di essi, per l’ “anomalia” della loro vicenda personale o familiare, finiscono per diventare inconsapevolmente una tacita, snobbata, divertita, compatita, tollerata componente nella percezione dell’appartenenza ad una comunità e alle sue diverse fasi storiche. Una notorietà, insomma, loro malgrado, da novelli “scemi del villaggio” beffarda e, se vogliamo, crudele che compensa, senza realmente compensarla, la sorte infausta di storie dolorose e tristi vicissitudini, quasi un contrappasso non certo voluto, sicuramente non meritato, rispetto alla “notorietà” ufficiale, con le sue nomenclature, i suoi vincenti, le sue profonde contraddizioni e incoerenze vestite di arroganza e mascherate di ipocrisia. 

Un tardo pomeriggio di una quindicina di giorni fa…
- “Nano!!!”…
Mi sono voltato sorpreso, appena sceso di auto di ritorno dal lavoro, in una torrida giornata di agosto… Solo una persona mi chiama così, una persona che era un paio di anni almeno che non vedevo più in giro, senza essere per altro riuscito ad avere mai la benché minima notizia sui motivi di questa “scomparsa”…
- “Mario!!!… Dio mio che gioia vederti!!! Ero molto, molto preoccupato… Non t’avevo più visto in giro, non sapevo nulla, senza nemmeno la possibilità di chiedere a qualcuno!!! Ma dimmi, che t’è successo?”
- “Sono stato male, acqua nei polmoni”
- “Sì, mi ricordavo che eri stato in ospedale anche ad Arezzo, ma sei poi peggiorato?” 
- “Sì, mi hanno mandato in un ospedale nel nord, ci sono stato tutto questo tempo, però ora sto bene!”
- “Davvero! Mi sembri proprio in ottima forma e di aspetto decisamente buono! Ma lo sai che oggi è una giornata magnifica, averti rivisto e così ben messo non immagini la contentezza che mi dà”
- “Grazie, grazie… Anche a me fa piacere…”
- “Allora adesso ci possiamo rivedere qua e là come prima!!!”
- “Sì, sì…”
- “Meno male!!! Ti saluto Mario!”
- “Ciao Nano, ah la tu’ mamma come sta?”
- “Bene, grazie, è al mare a fare la pensionata di lusso dai primi di luglio, capito la signora?”
- “Eh, fa proprio bene, salutamela tanto!”
- “Senz’altro!”...

Questa fu la prima e l’ultima volta che ho visto, dopo la sua lunga assenza, Alessandro Cardicchi, detto Marione. Il 13 agosto scorso, in un afoso, grigio lunedì di mezza estate, ne hanno trovato il cadavere nella casa popolare in cui viveva, deceduto, come ha stabilito poi l’autopsia, da almeno 5 giorni per un arresto cardio-circolatorio, in attesa che gli esami tossicologici e istologico diano ulteriori chiarimenti circa le cause della morte. Marione è morto e nessuno ci aveva fatto caso… Solo perché non rispondeva più al cellulare e nessuno l’aveva più visto da qualche giorno, qualcuno forse a lui per avventura più vicino di altri si è insospettito, fino alla macabra scoperta… Nell’occasione del nostro incontro, ricordo ancora il commiato, quando un ultimo, sdentato sorriso illuminò nel saluto quel faccione segnato da cinquant’anni di devastante tossicodipendenza, di chissà quali prostrazioni psicologiche e fisiche, di una giovinezza e una maturità consumati fra eroina, reati vari, sigarette, metadone, SERT, ospedale e carcere, riprese e ricadute, speranza d’uscire dal tunnel e disperazione di chi sa che non potrà, di fatto, mai uscirne perché la vita con alcuni, è noto, è madre e con altri matrigna, e quando vuole ci si impegna bene a fare guasti, specie se ci mettono del loro i cosiddetti “amici”, che prima ti sfruttano, poi ti illudono, poi ti deludono quando meno te lo aspetteresti, quando meno ne avresti bisogno perché maggiore è la tua fragilità.
C’è chi pensa che delinquenti si nasce, quasi una predestinazione genetica senza speranza: a che cosa serve dare una, due, tre possibilità… A nulla: “L’ha nel sangue, non cambierà mai!!!”… Ma forse, le cose non stanno proprio così… Forse un lavoro che non costringa a vivere di umiliazioni ed espedienti, del paio d’euro elemosinati a mezza voce per un panino o un caffè (se non per fare la somma sufficiente da sputtanare nella solita “dose”), che ti dia almeno una parvenza di vita “normale” e “regolare” dopo tanta, troppa emarginazione, “anormalità”, è solo un misero, minimo, per quanto importante, inizio… Ci vuol ben altro per la “redenzione” vera, quella definitiva, da cui non si torna indietro… Tempo, costanza, fiducia, forza, minaccia, magari violenza… Ma tutto questo non serve comunque se prima di ogni altra cosa non c’è un presupposto indispensabile, ossia l’amore. Non so quanto e come Mario ne abbia ricevuto… Non credo proprio tanto, o abbastanza adeguato da evitarne la triste parabola… Ma di certo aveva da darne, questo sì. Quella figura goffa e gaglioffa, sporca e maleodorante, balorda e inaffidabile, coperta di trucidi tatuaggi da detenuto, con un suo deformato codice d’onore (il rispetto orgoglioso e vagamente eroico di una strenua omertà verso chi, falso amico, lo usava per i suoi fini illeciti, anche a costo di aggravare la propria posizione penale), una sera mi commosse particolarmente. Ero all’epoca responsabile dell’ufficio esteri di una ditta con sede nella provincia di Arezzo e Mario era stato “arruolato” dai titolari come folkloristico guardiaspalle e uomo di fatica, di quelle cose che spesso chi presume di avere, a vario titolo, una certa posizione di potere, fa un po’ per interessata filantropia, un po’ per esibizionismo, un po’ per divertimento… Siccome abitava nel mio stesso quartiere e, per i suoi conti ancora aperti con la giustizia e la società, non aveva la patente, capitava che gli dessi un passaggio verso casa la sera. Durante questi brevi tragitti ebbi modo di creare con lui un contatto che superò la mia istintiva diffidenza, con la conseguenza di accorciare le distanze fra di noi. E mi colpì in particolare una volta, appunto, in cui io parlavo di mia madre, una donna “normale”, e del mio rapporto "normalmente" problematico con lei. Ad un certo punto, fra il rassegnato e il sommesso, con la sua voce rauca e il suo parlare impastato, Mario iniziò a rammentare la propria madre, alla quale doveva il soprannome medesimo, lasciandosi andare al sofferto ricordo della sua atroce fine: abbandonata con la gola squarciata in un bosco, nei pressi del quale esercitava da sempre il mestiere più antico del mondo, quel mestiere che le aveva donato una squadra di figli e un tale squallido destino. E il dolore diventò rabbia sconsolata e impotente quando urlò contro l’ingiustizia degli inquirenti, tanto pronti a “castigare” i poveracci perduti come lui, quanto ad archiviare il caso senza troppi affanni per chi, dato quel tipo di “lavoro”, avrà di certo pagato per lo sgarro a qualcuno che non doveva “toccare”… Del resto, un destino comune, no? Ma per Mario lei era solo sua madre, e una madre è una madre, anche se è “diversa” e se per questa diversità le è stata, alla fine, negata giustizia. Fu agghiacciante quando mi raccontò che, alla notizia dell’archiviazione del caso, cercò lui stesso per la disperazione di farla finita dicendo, forse con infantile esagerazione, di essersi iniettato un “ramaiolo di roba”… Da allora, prese a chiedermi con frequenza di mia madre, di come stava e di salutarmela, accompagnando i saluti talvolta con la raccomandazione di “comportarmi bene”, specie dopo che un giorno, incontrandolo per caso in compagnia di lei, finalmente gliela presentai… 
Forse questo ricordo, alla fine, vuole denunciare e autodenunciare l’indifferenza che a troppi Mario riserviamo ogni giorno, esaltando il nostro altruismo con la monetina d’occasione, o con la pacca sulle spalle, magari con un pensiero affettuoso, ma senza preoccuparci minimamente se e come potere andare oltre e aiutare veramente… Forse è pure facile scrivere adesso belle parole e tacitarsi la coscienza quando ormai non ci possiamo più far niente, sebbene ti rimordano e ti facciano provare vergogna di te stesso episodi come quello in cui titubavi a stringere una mano deturpata da buchi e sporcizia… O forse mi mancherà davvero quella figura goffa e gaglioffa, con il suo sdentato sorriso e i suoi saluti a mia madre…


1 commento:

Unknown ha detto...

Davvero commovente, ora sarà libero con sua madre