domenica 23 settembre 2012

Prima notte di passione


E’ stato quasi inevitabile:
tu con le tue remore,
io coi miei distinguo,
ma infine semplicemente noi,
taciti complici
per un attimo lungo un giorno
eterei 
nella danza macabra
di un incerto bozzetto d’autunno.
Per un attimo: la tua la mia pelle
si sfiorano, e nella morbida
vertigine carnale della tua nudità,
così ferocemente donna,
così perdutamente femmina,
affondo immemore
e dannato.

Ricordava il vecchio professore
i nudi maggiori di Modì,
e vagamente quelli di Manet,
e forse qualcos’altro
non ben precisato,
quando talora accennava
a Veneri steatopigie, Iside e Cibele,
parlando a se stesso
nell’ospizio comunale del paese… 

mercoledì 15 agosto 2012

Ciao Ale...

Questo non è né un racconto di fantasia, né una riflessione sull’amore, la musica, la poesia, i massimi sistemi… Questo è il ricordo triste e forse un po’ patetico di uno sciagurato, che non c’è più. Per gli Aretini la figura è senz’altro nota, facendo parte di quei personaggi che, nelle varie epoche, hanno caratterizzato e caratterizzano la quotidianità di una sonnolenta cittadina di provincia, dove ancora lo “struscio in centro” consente di incontrare le solite facce, i soliti volti. Alcuni di essi, per l’ “anomalia” della loro vicenda personale o familiare, finiscono per diventare inconsapevolmente una tacita, snobbata, divertita, compatita, tollerata componente nella percezione dell’appartenenza ad una comunità e alle sue diverse fasi storiche. Una notorietà, insomma, loro malgrado, da novelli “scemi del villaggio” beffarda e, se vogliamo, crudele che compensa, senza realmente compensarla, la sorte infausta di storie dolorose e tristi vicissitudini, quasi un contrappasso non certo voluto, sicuramente non meritato, rispetto alla “notorietà” ufficiale, con le sue nomenclature, i suoi vincenti, le sue profonde contraddizioni e incoerenze vestite di arroganza e mascherate di ipocrisia. 

Un tardo pomeriggio di una quindicina di giorni fa…
- “Nano!!!”…
Mi sono voltato sorpreso, appena sceso di auto di ritorno dal lavoro, in una torrida giornata di agosto… Solo una persona mi chiama così, una persona che era un paio di anni almeno che non vedevo più in giro, senza essere per altro riuscito ad avere mai la benché minima notizia sui motivi di questa “scomparsa”…
- “Mario!!!… Dio mio che gioia vederti!!! Ero molto, molto preoccupato… Non t’avevo più visto in giro, non sapevo nulla, senza nemmeno la possibilità di chiedere a qualcuno!!! Ma dimmi, che t’è successo?”
- “Sono stato male, acqua nei polmoni”
- “Sì, mi ricordavo che eri stato in ospedale anche ad Arezzo, ma sei poi peggiorato?” 
- “Sì, mi hanno mandato in un ospedale nel nord, ci sono stato tutto questo tempo, però ora sto bene!”
- “Davvero! Mi sembri proprio in ottima forma e di aspetto decisamente buono! Ma lo sai che oggi è una giornata magnifica, averti rivisto e così ben messo non immagini la contentezza che mi dà”
- “Grazie, grazie… Anche a me fa piacere…”
- “Allora adesso ci possiamo rivedere qua e là come prima!!!”
- “Sì, sì…”
- “Meno male!!! Ti saluto Mario!”
- “Ciao Nano, ah la tu’ mamma come sta?”
- “Bene, grazie, è al mare a fare la pensionata di lusso dai primi di luglio, capito la signora?”
- “Eh, fa proprio bene, salutamela tanto!”
- “Senz’altro!”...

Questa fu la prima e l’ultima volta che ho visto, dopo la sua lunga assenza, Alessandro Cardicchi, detto Marione. Il 13 agosto scorso, in un afoso, grigio lunedì di mezza estate, ne hanno trovato il cadavere nella casa popolare in cui viveva, deceduto, come ha stabilito poi l’autopsia, da almeno 5 giorni per un arresto cardio-circolatorio, in attesa che gli esami tossicologici e istologico diano ulteriori chiarimenti circa le cause della morte. Marione è morto e nessuno ci aveva fatto caso… Solo perché non rispondeva più al cellulare e nessuno l’aveva più visto da qualche giorno, qualcuno forse a lui per avventura più vicino di altri si è insospettito, fino alla macabra scoperta… Nell’occasione del nostro incontro, ricordo ancora il commiato, quando un ultimo, sdentato sorriso illuminò nel saluto quel faccione segnato da cinquant’anni di devastante tossicodipendenza, di chissà quali prostrazioni psicologiche e fisiche, di una giovinezza e una maturità consumati fra eroina, reati vari, sigarette, metadone, SERT, ospedale e carcere, riprese e ricadute, speranza d’uscire dal tunnel e disperazione di chi sa che non potrà, di fatto, mai uscirne perché la vita con alcuni, è noto, è madre e con altri matrigna, e quando vuole ci si impegna bene a fare guasti, specie se ci mettono del loro i cosiddetti “amici”, che prima ti sfruttano, poi ti illudono, poi ti deludono quando meno te lo aspetteresti, quando meno ne avresti bisogno perché maggiore è la tua fragilità.
C’è chi pensa che delinquenti si nasce, quasi una predestinazione genetica senza speranza: a che cosa serve dare una, due, tre possibilità… A nulla: “L’ha nel sangue, non cambierà mai!!!”… Ma forse, le cose non stanno proprio così… Forse un lavoro che non costringa a vivere di umiliazioni ed espedienti, del paio d’euro elemosinati a mezza voce per un panino o un caffè (se non per fare la somma sufficiente da sputtanare nella solita “dose”), che ti dia almeno una parvenza di vita “normale” e “regolare” dopo tanta, troppa emarginazione, “anormalità”, è solo un misero, minimo, per quanto importante, inizio… Ci vuol ben altro per la “redenzione” vera, quella definitiva, da cui non si torna indietro… Tempo, costanza, fiducia, forza, minaccia, magari violenza… Ma tutto questo non serve comunque se prima di ogni altra cosa non c’è un presupposto indispensabile, ossia l’amore. Non so quanto e come Mario ne abbia ricevuto… Non credo proprio tanto, o abbastanza adeguato da evitarne la triste parabola… Ma di certo aveva da darne, questo sì. Quella figura goffa e gaglioffa, sporca e maleodorante, balorda e inaffidabile, coperta di trucidi tatuaggi da detenuto, con un suo deformato codice d’onore (il rispetto orgoglioso e vagamente eroico di una strenua omertà verso chi, falso amico, lo usava per i suoi fini illeciti, anche a costo di aggravare la propria posizione penale), una sera mi commosse particolarmente. Ero all’epoca responsabile dell’ufficio esteri di una ditta con sede nella provincia di Arezzo e Mario era stato “arruolato” dai titolari come folkloristico guardiaspalle e uomo di fatica, di quelle cose che spesso chi presume di avere, a vario titolo, una certa posizione di potere, fa un po’ per interessata filantropia, un po’ per esibizionismo, un po’ per divertimento… Siccome abitava nel mio stesso quartiere e, per i suoi conti ancora aperti con la giustizia e la società, non aveva la patente, capitava che gli dessi un passaggio verso casa la sera. Durante questi brevi tragitti ebbi modo di creare con lui un contatto che superò la mia istintiva diffidenza, con la conseguenza di accorciare le distanze fra di noi. E mi colpì in particolare una volta, appunto, in cui io parlavo di mia madre, una donna “normale”, e del mio rapporto "normalmente" problematico con lei. Ad un certo punto, fra il rassegnato e il sommesso, con la sua voce rauca e il suo parlare impastato, Mario iniziò a rammentare la propria madre, alla quale doveva il soprannome medesimo, lasciandosi andare al sofferto ricordo della sua atroce fine: abbandonata con la gola squarciata in un bosco, nei pressi del quale esercitava da sempre il mestiere più antico del mondo, quel mestiere che le aveva donato una squadra di figli e un tale squallido destino. E il dolore diventò rabbia sconsolata e impotente quando urlò contro l’ingiustizia degli inquirenti, tanto pronti a “castigare” i poveracci perduti come lui, quanto ad archiviare il caso senza troppi affanni per chi, dato quel tipo di “lavoro”, avrà di certo pagato per lo sgarro a qualcuno che non doveva “toccare”… Del resto, un destino comune, no? Ma per Mario lei era solo sua madre, e una madre è una madre, anche se è “diversa” e se per questa diversità le è stata, alla fine, negata giustizia. Fu agghiacciante quando mi raccontò che, alla notizia dell’archiviazione del caso, cercò lui stesso per la disperazione di farla finita dicendo, forse con infantile esagerazione, di essersi iniettato un “ramaiolo di roba”… Da allora, prese a chiedermi con frequenza di mia madre, di come stava e di salutarmela, accompagnando i saluti talvolta con la raccomandazione di “comportarmi bene”, specie dopo che un giorno, incontrandolo per caso in compagnia di lei, finalmente gliela presentai… 
Forse questo ricordo, alla fine, vuole denunciare e autodenunciare l’indifferenza che a troppi Mario riserviamo ogni giorno, esaltando il nostro altruismo con la monetina d’occasione, o con la pacca sulle spalle, magari con un pensiero affettuoso, ma senza preoccuparci minimamente se e come potere andare oltre e aiutare veramente… Forse è pure facile scrivere adesso belle parole e tacitarsi la coscienza quando ormai non ci possiamo più far niente, sebbene ti rimordano e ti facciano provare vergogna di te stesso episodi come quello in cui titubavi a stringere una mano deturpata da buchi e sporcizia… O forse mi mancherà davvero quella figura goffa e gaglioffa, con il suo sdentato sorriso e i suoi saluti a mia madre…

martedì 14 agosto 2012

A te che c'eri, a te che sai...

Danzano molli
le tende
sulla tua nudità languente,
mosse leggere
dalla timida brezza
del primo mattino,
che le tue membra
dormienti
culla e carezza...
In silenzio t’osservo:
nell’onda increspata
e disfatta
da una tenera guerra,
un giunco
sinuoso ed inerte...
Appena, pudìco,
un lembo
fascia i tuoi fianchi,
senza celare
distratto
la protervia dei seni,
protési come
musetti curiosi
di leggiadri cerbiatti
al richiamo del vento...
Vorrei ancora
la grazia
d’un audace
sussulto, un fremito caldo
che uccida
per sempre il freddo
di quest’uomo
ramingo...



mercoledì 4 luglio 2012

Maxence Fermine, L'apicoltore, Bompiani 2002: Impressioni di lettura

Aurélien Rochefer, il protagonista del romanzo, è un ragazzo che vive con il nonno nella Francia meridionale di fine ‘800, dove la fioritura, il raccolto e il commercio della lavanda scandiscono la placida e serena vita del paesello in cui è nato e risiede. Aurélien insegue da sempre un sogno, quello di cercare l’oro come ideale di amore per la bellezza della vita, ciò che non a caso non significa per lui avidità di ricchezze, bensì realizzazione di un alveare, perché le api rappresentano, con il loro colore, la loro dedizione ai fiori, l’ambrato frutto del loro lavoro instancabile, la più compiuta espressione di tale aspirazione. Un sogno, un amore che, nel giovane, si intreccia e si confonde con l’attrazione per una ragazza del paese, Pauline, la quale ricambia le sue attenzioni in un gioco di innocente seduzione. La distruzione accidentale dell’alveare, la visione ammaliante di una misteriosa donna bruna dalla pelle dorata che gli provoca un’infatuazione quasi ossessiva, l’inquietudine che lo spinge a non indugiare nella sua ricerca, inducono però Aurélien a lasciare tutto e a partire per terre lontane, lo Yemen e di lì l’Africa, dove varcherà le aride e infernali terre della Dancalia, in Abissina, fino alla regione di Harar, un viaggio in certo senso iniziatico, nel quale conoscerà svariati personaggi e situazioni, fino ad incontrare la misteriosa e sensuale donna dalla pelle d’oro: una sorta di sacerdotessa/regina, a capo di una comunità che raccoglie il miele nella inaccessibile Rupe delle api, montagna ritenuta sacra e non violabile da estranei. Sarà lei che farà conoscere al ragazzo le delizie erotiche del talamo, lasciandogli un prezioso omaggio prima di scomparire inopinatamente con la propria gente. L’impossibilità di far continuare oltre il suo aureo progetto di amore e bellezza vitale lo riporterà, attraverso altre provanti esperienze, al paese di origine per realizzarvi una ciclopica, quanto temeraria opera capace di dare senso e ragion d’essere al suo sogno: Apipoli, la città delle api, destinata nondimeno ad un ennesimo, colossale fallimento per un beffardo scherzo di natura. Ormai in rovina e pieno di debiti, privo per giunta di tutti gli affetti, dopo la morte del nonno e la rottura della promessa d’amore fatta a Pauline prima della sua partenza per l’Africa, a causa della sua passione per la donna conosciuta e amata in Abissinia, troverà finalmente il coronamento del suo vagheggiato sogno proprio nell’amore di Pauline che, nonostante tutto, è riuscito a sopravvivere e a veder premiata la sua dedizione, nonché nella pertinace volontà di non desistere comunque dalla sua “vocazione” di apicoltore.
             Il Sogno e la Realtà: variazione sul tema, potremmo sintetizzare il senso di questa graziosa favola, vincitrice del Premio Murat 2001, dove la ferrea volontà di inseguire e realizzare il primo (la ricerca dell’oro, che le api con il loro mondo disciplinato, magicamente misterioso, dai colori del sole, incarnano come simbolo di grazia e bellezza fatale) con quasi sfrontata determinazione, con un’audacia che non indietreggia neppure dinanzi agli ostacoli più duri e alle difficoltà più impervie, con un furor capace di imprese disperate e folli, pare puntualmente scontrarsi e ineluttabilmente naufragare con l’aleatoria, beffarda, imprevedibilità della seconda, ma solo per trarne la più banale, e tuttavia proprio per questo fondamentale, delle morali: non cercare troppo lontano ciò che è e hai sempre avuto accanto a te.
Potremmo anche tentarne una lettura allegorica, una sorta di percorso iniziatico, che attraverso le tappe circolari di una cartarsi onirica, porta l’individuo ad un livello di coscienza e consapevolezza mature, in cui l’Essere si realizza al fuori della illusoria e fascinosa sicumera di speciosi specchi ustori, di peregrini Eldoradi fascinosi, ma esiziali come insidiosi canti di sirena.
Una simile lettura potrebbe trovare sostegno sul carattere simbolico di alcuni elementi enucleabili dal contesto… Penso, ad esempio, uno fra tutti, alla ricorrenza quasi programmatica del numero sette che, come noto, ha una valenza numerologica atta a rappresentare il compiuto equilibrio ed il perfezionamento della natura umana… Ma qui il discorso porterebbe lontano, ben al di là di queste corsive osservazioni di mediocre lettore, e forse ben oltre le intenzioni stesse dell’autore...

mercoledì 1 febbraio 2012

Nevica, nevica...












Nevica, nevica...
Ed io qui, inebetito, inerte,
niente lavoro, apatico, pigro, niente
di niente... Guardo...
Nevica, nevica...
Fuori il mondo, nessuno, lunare
fra i vaghi silenzi, ed immane
un sepolcro danzante
di gelida calce,
tanto leggiadro cade
quanto pesante
resta...
Nevica, nevica...
Ed io mi trasformo, nel gelo di questo
bianco morire...
A Franz l'orrida blatta,
a me l'idiota omino di neve,
a noi l'ennesimo angosciante dilemma:
schiacciati o squagliati?
E nevica, nevica...