domenica 12 febbraio 2023


    E finalmente ti ho conosciuto, nonno… Finalmente… Mai avverbio fu più appropriato di questo, considerata la circostanza del nostro rendez-vous… L’unico dei miei nonni che non ho mai visto, se non in qualche foto ingiallita e nei racconti di tua moglie e di tua figlia, più di tua figlia, visto che la nonna parlava di te poco, anche se sempre con grande, contenuto affetto… Ricordo, in particolare, un paio di frasi che era solita dire in occasione della data della tua nascita e di quella della tua morte, puntuali quasi fossero una necessità liturgica, un atto doveroso di celebrazione e memoria: “Oggi è ‘l compleanno del tu’ nonno” / “Oggi sono vent’anni ch’è morto il tu’ nonno Norino … Quant’ha patito, parino!”, cantilenando le parole finali, con lo sguardo che si perdeva per qualche attimo nella mestizia di chissà quale frammento di ricordo.
    Sei morto, in effetti, prima che io nascessi e che tua figlia e mio padre si sposassero…
    Di te so poche cose, ma quelle scarne notizie ti hanno reso nella mia fantasia di nipote postumo una figura ineffabile, sicuramente un importante tassello mancante nel groviglio delle mie radici familiari, con la curiosità insoddisfatta di indovinare come sarebbe stato se ti avessi conosciuto, se mi avessi cresciuto, e di sentire un’innata simpatia e congenialità per quel tuo sguardo profondo ed enigmatico, quell’espressione buona e vagamente ironica, che in tutte le tue residue immagini traspaiono, attraverso le fasi della tua non lunga vita… 
    Dalle foto e dalle parole di mamma so che mi hai lasciato in eredità il taglio degli occhi, la fronte, la stempiatura e i capelli, alcune attitudini, ad esempio la facilità ad abbronzarmi, e certi comportamenti… So che dei tuoi quattro fratelli superstiti (ti avevano chiamato Norino – ma non ne ho mai capito l’attinenza se non per la sillaba iniziale - perché eri il nono di una serie di figli, di cui solo quattro erano sopravvissuti alla nascita o alla primissima infanzia) eri il terzo, dopo lo zi’ Fano (Stefano), lo zi’ Mimi (Settimio) e prima dello zi’ Gigi, che, al par tuo, non ho mai conosciuto… Anche se, a dire il vero, non sono proprio sicuro che tu fossi il terzo o il quarto… E non c’è più nessuno ormai che mi risolva il dubbio…
    So che eri, a modo tuo e per il periodo in cui hai vissuto, un uomo un po’ fuori dalle righe, che parlava poco e praticava la “filosofia” del vivi e lascia vivere… A differenza dei tuoi fratelli, più seriosi, morigerati e moralisti, ingerenti e calati nelle funzioni familiari che il gruppo patriarcale in cui tutti vivevate con le proprie mogli e con un figlio ciascuno, facendo i coltivatori diretti, di necessità assegnava: a Fano, il fratello maggiore, toccava per questa prerogativa anagrafica di diritto la parte del capoccia, ma era un omone troppo buono e permissivo per svolgerla di fatto; alla moglie Vittoria, che i racconti vogliono una donna piccola di statura e magrissima di corporatura, spettava, di conseguenza, il ruolo di massaia nel quale, al contrario del marito, si trovava perfettamente calata e che esercitava con rigore e autorità; Mimi era il vero capo famiglia, uomo duro, intransigente, severo e irascibile, attentissimo nel gestire l’economia domestica e nel voler fare rispettare le regole del gruppo (che erano in realtà le “sue” regole); a parti invertite rispetto alla coppia Fano e Vittoria, la moglie Quinta era invece l’esatto opposto: una donnina placida, radiosa e dolcissima; Gigi esprimeva il proprio occasionale disappunto girandosi di spalle durante i pasti comuni, senza però avere il coraggio di andare oltre un gesto tanto simbolico, quanto vano; della moglie Giuseppa, detta Beppa, ricordo che era una brava donna, tranquilla e semplice. Tu, invece, te ne fregavi del mondo; tacevi, non ti impicciavi, e lasciavi ai fratelli e alle cognate liti e battibecchi, ti caricavi la tua parte di lavoro, ma per il resto facevi quello che ti andava di fare, come e quando ti pareva, senza che nessuno ne avesse da ridire.
    Ti piacevano le donne e mamma, con bonario fare di rimprovero, laddove nonna tendeva a minimizzare e sorvolare, era solita ricordare l’episodio di quando portasti a casa una “amica” che era, a detta tua, in difficoltà e aveva bisogno di ospitalità per qualche giorno, e l’avevi messa a dormire con lei e la nonna, salvo che poi ti beccarono i tuoi fratelli con la signora in questione nel fienile ad esercitare i tuoi doveri di ospite ben oltre il dovuto!
    Amavi giocare a carte e vincevi spesso, tanto che a mamma avevi anche regalato una bicicletta con i soldi del gioco, e a quei tempi ciò significava permettersi un gran lusso… A volte venivano con te la nonna e la mamma allora bambina, perché spesso c’era chi portava una fisarmonica e qualche altro strumento e si improvvisava una serata danzante: a te non piaceva il ballo, ma a nonna sì. Così ne approfittavi per farla ballare quanto e con chi voleva, mentre te ne potevi stare indisturbato a giocare, senza rotture di sorta! 
    Non ti appassionava la danza, però amavi cantare, passione che avevi trasferito a mamma, e una delle tue canzoni preferite era “Vivere” di Cesare Andrea Bixio, manco a caso! Eri, per altro, un burlone, che non aveva nemmeno problemi a “scherzare” mettendo in bella mostra le proprie “vergogne”, esattamente come me! Anche qui mi sovviene un racconto di nonna e mamma, che scuotevano la testa sorridendo ed esclamando quanto eri “matto”, quando un giorno, tutti voi con altri vicini intenti a lavorare nei campi, una delle donne si assentò per andare a fare i suoi bisogni in un fosso lì appresso; a te venne improvvisamente il ruzzo e offristi alla sudata platea un momento di maliziosa ilarità, seguendola piano piano, attendendo che abbassasse le vesti e che si accovacciasse, e saltando dunque fuori all’improvviso, a pantaloni giù e con l’arnese di fuori, così che la poveretta si mise a correre a perdifiato e a tu ad inseguirla, urlando fra i coltivi a braghe calate, fra le risate dei presenti.
    Ti chiamavano da piccolo “Gambescia”, poiché avevi imparato a camminare tardi e da solo ed inizialmente lo facevi trascinando le gambe. Un altro racconto dimostra come tu fossi già allora un po’ canaglia, anzi, come diceva la mamma, “lo spirito della contraddizione”! Quando, appunto bambino, tuo nonno ti voleva mandare all’appalto (così era chiamata la bottega della frazione che faceva da bar, tabacchi, alimentari, sala da gioco, da ballo e da ritrovo) a prendere non so se le sigarette o i fiammiferi, apostrofandoti con quel nomignolo. E tu, per dispetto, continuavi a farti gli affari tuoi senza “dargli udienza”, per dirlo con le parole di nonna. Allora il vecchio chiese ad un vicino di provare lui, per proprio conto, a chiedere il favore e tu subito scattasti con il tuo piede strascicante per accontentarlo!
    Tu e nonna eravate l’unica coppia, delle quattro che formavano il nucleo familiare, ad avere avuto una femmina. Adoravi tua figlia, e l’avresti voluta maestra, una delle professioni che negli anni immediati del dopoguerra era considerata fra quelle che significavano uno stipendio buono e sicuro e una collocazione sociale di rispetto e riguardo. 
    Per farla studiare avresti fatto ogni sacrificio, ma lei non aveva la vocazione dello studio e ti toccava, anzi, accompagnarla a scuola tutte le volte, e non era infrequente, che prendeva delle punizioni. Si rivolgeva a te, il genitore “buono”, visto che la nonna non aveva la tua stessa indulgenza e non gliela avrebbe certo fatta passare liscia! E ti prestavi non solo con mamma, perché a te si appellava anche Benedetto, il figlio di Mimi, lo scavezzacollo di famiglia, quando marinava la scuola, affinché tu ti facessi passare con gli insegnanti per suo padre, il quale non gli avrebbe risparmiato, al contrario, ben altro trattamento.
    Per quanto potevi, non facevi mancare nulla alla mamma e la difendevi da tutto e tutti, pure un po’ troppo forse! Una volta, ricoverato in ospedale ad Arezzo, tua figlia ti assisteva e ti faceva le notti, alternandosi con la nonna. Là, poco più che ragazzetta, conobbe un giovane militare di leva, proveniente da Pisa, che faceva nella vita civile il barbiere o il macellaio, non rammento, e assisteva anche lui un commilitone degente. Fra i due ragazzi nacque un’amicizia e un’innocente intesa che si concretizzarono nello scambio di indirizzi e nella promessa di scriversi. Tornati a casa, mamma aspettò invano una lettera del soldatino, e pensò che fosse stata un po’ una promessa da marinaio. Ma dopo molto tempo, da nonna, scoprì che invece erano arrivate diverse lettere, che tu candidamente buttavi via senza manco aprirle perché dicevi che era meglio avere un morto in casa che un Pisano alla porta! Sì, lo so, tu dirai che facevi così per proteggerla ed è vero che i Pisani Dio ci scampi e liberi, però nonno… Dai!!! Invece, un’altra volta, mentre la nonna non c’era e tu stavi a letto afflitto dalla malattia che ti avrebbe poi portato via, mamma fu inseguita dallo zi’ Mimi sulle scale con l’intento di picchiarla, per la sola colpa di essersi messa a stirare fuori dagli orari deputati secondo le “famose” regole di casa per il consumo dell’energia elettrica (l’aveva visto dal contatore che girava nonostante dovesse essere tutto spento, durante una delle sue “ronde” di controllo); impaurita, corse da te per trovare protezione, e tu con le poche forze che avevi ti alzasti dicendo qualcosa tipo “E ‘n te mena, ‘n te mena, sta’ tranquilla!” e così fu, ché Mimi arretrò dinanzi a quel padre malato, ma pronto a tutto pur di difendere la figlia.
    Per certi aspetti eri apparentemente un po’ contraddittorio, dal momento che ogni tanto il tuo spirito tollerante e guascone cedeva il passo all’esser figlio dei tuoi tempi e partecipe di un moralismo di maniera che le convenzioni della società di allora imponeva. Sorvoliamo, nondimeno, sul fatto che sposasti nonna già incinta di te, cosa che lei non amava mai molto ricordare, un po’ per bigottismo, un po’ perché, forse, nata e cresciuta in una famiglia molto povera, mentre a voi non mancava nulla pur sgobbando tutti i giorni sui campi, doveva aver vissuto l’evento in modo forse non proprio sereno, dati i tempi e tanto più che per la sua indigenza e mancanza di dote era invisa ai tuoi fratelli. Ma tu non ti sottraesti alle tue responsabilità, e da una foto di voi due che vi guardate al mare con tenerezza, posso pensare che in realtà quella gravidanza era frutto non di un’avventatezza, bensì di un sentimento reale che vi univa e che vi aveva fatto abbassare la guardia. Ma con tua figlia non eri altrettanto moderno e quando te la vedesti tornare con i capelli color biondo platino, la rincorresti tutto intorno alla tavola senza poi, in realtà, farle nulla… Ma dovevi recitare la parte del genitore severo, anche forse e soprattutto agli occhi dei fratelli… Il tuo show lo volesti fare anche in un’altra occasione, quando mamma e un’amica conobbero dei distinti giovanotti di città, uno dei quali mamma ricordava avere i capelli già un po’ brizzolati. I due vennero in campagna per “filare” con le due ragazze, ma non so come, tu fiutasti la cosa e, inforcata la bici e visti i quattro da lontano, per altro in luogo aperto e pubblico, iniziasti a sbraitare, facendo scappare le due ragazzette per la vergogna e lasciando basiti i giovanotti.
    Una volta, aprendo vecchie scatole, trovai un tuo quaderno, dove annotavi meticolosamente con mano malferma le spese della tua famigliola… Provai un gran senso di tenerezza e malinconia… Fra l’altro, posi mente a quando, dopo la guerra divise le proprietà coi fratelli, malato e non più dedito ai lavori agricoli, sbarcavi il lunario con un lavoretto, che a sentirlo definire dalla mamma, mi faceva chissà perché sorridere… Guardavi l’acqua! O meglio, avevi avuto l’incarico da un consorzio locale di controllare che i coltivatori non attingessero in maniera indebita le acque del Tevere per l’irrigazione. Mamma ti aiutava nella registrazione dei prelievi idrici e si beccò anche un ceffone in pieno volto dal gestore del consorzio per la sola colpa di avere fatto un errore di scrittura… Non rammento bene che cosa avvenne poi, so che protestasti, ma la tua vicenda umana era ormai al capolinea e serve a poco scandagliare oltre… Avevi una malattia che non ti dava tregua e non si sapeva manco benissimo di che cosa si trattasse… La nonna diceva che avevi iniziato a sentirti male dopo avere ricevuto un calcio sullo stomaco dalla cavalla che avevate fra il bestiame di famiglia, e che t’avevano “sbagliato un’operazione”, non so quale delle molteplici cui sapevo ti avevano sottoposto senza impedire che alla fine, dopo qualche anno, te ne andassi non senza aver sofferto il giusto, in una calda giornata di fine luglio, il 28 per l’esattezza, del 1961… Avevi 51 anni… Nato il 10 gennaio del 1910, in pieno inverno, 21 giorni prima che, passati 29 anni, nascesse tua figlia, te ne sei andato in piena estate, 14 giorni prima, a distanza di 60 anni, di tua figlia…
    Venire a trovarti nella quiete del cimiterino di campagna dove eri sepolto è stato a lungo uno dei riti della giovinezza mia e di mio fratello, quando giungevamo per la commemorazione dei defunti che lì, a Santa Fiora, si faceva sempre, chissà perché, la domenica successiva a quella ufficiale del 2 novembre, e si radunavano parenti  e amici vicini e lontani ed era l’occasione per grandi mangiate, rimpatriate, rivedere chi si era disperso per il mondo, fare la conta di chi ancora era fra noi e chi nel mondo dei più, mentre l’aria si impregnava di odore di incenso e crisantemi, i lumini facevano ballare le fiammelle nella bruma umida e grigia del meriggio autunnale e vibravano al cielo le cantilene delle donne snocciolanti i Misteri Dolorosi fra il brusio biascicato degli ora pro nobis… 
    E oggi siamo ancora lì, per un’ultima volta forse… La stragrande maggioranza di quei volti che vedevamo vivi e sorridenti, adesso figura nelle foto ricordo delle lapidi… E quello che resta di te è in quell’ammasso contorto di lamiere di zinco, ossa brune e umide e stracci… Per la burocrazia, come c’è un termine per il tempo della vita, ne esiste pure uno per quello della morte… Ed è ora il momento di lasciare questa dimora: degli operai incaricati dal Comune depongono con silente compostezza le tue spoglie in un’urnetta che andrà con nonna, tua moglie, ad Arezzo, non lontano da dove riposa tua figlia… Di nuovo tutti e tre insieme… E a noi resta il fardello di un’esistenza che toglie sempre troppo per quello che dà… 

Arezzo, 24 gennaio 2023

venerdì 29 marzo 2013

Chendollàit


Vicino a un prete,
quasi per caso,
una bugia,
le corte zampe e il rostro adunco, pare
un piovanello in cova, e poi
la fiamma, un occhio stanco
sui gibbi sfatti
d’antico sego, opale nella danza
delle ore, fra ombre
tremule e trepide
finzioni…
Forse, davvero, non resta
che seguire le volute di questo
fumo grigio-azzurro,
il suo lento salire sbiadendo, l’inesorabile
svanire…
Ché, in fondo, una bugia
è solo la figlia orfana
del vero…

domenica 23 settembre 2012

Prima notte di passione


E’ stato quasi inevitabile:
tu con le tue remore,
io coi miei distinguo,
ma infine semplicemente noi,
taciti complici
per un attimo lungo un giorno
eterei 
nella danza macabra
di un incerto bozzetto d’autunno.
Per un attimo: la tua la mia pelle
si sfiorano, e nella morbida
vertigine carnale della tua nudità,
così ferocemente donna,
così perdutamente femmina,
affondo immemore
e dannato.

Ricordava il vecchio professore
i nudi maggiori di Modì,
e vagamente quelli di Manet,
e forse qualcos’altro
non ben precisato,
quando talora accennava
a Veneri steatopigie, Iside e Cibele,
parlando a se stesso
nell’ospizio comunale del paese… 

mercoledì 15 agosto 2012

Ciao Ale...

Questo non è né un racconto di fantasia, né una riflessione sull’amore, la musica, la poesia, i massimi sistemi… Questo è il ricordo triste e forse un po’ patetico di uno sciagurato, che non c’è più. Per gli Aretini la figura è senz’altro nota, facendo parte di quei personaggi che, nelle varie epoche, hanno caratterizzato e caratterizzano la quotidianità di una sonnolenta cittadina di provincia, dove ancora lo “struscio in centro” consente di incontrare le solite facce, i soliti volti. Alcuni di essi, per l’ “anomalia” della loro vicenda personale o familiare, finiscono per diventare inconsapevolmente una tacita, snobbata, divertita, compatita, tollerata componente nella percezione dell’appartenenza ad una comunità e alle sue diverse fasi storiche. Una notorietà, insomma, loro malgrado, da novelli “scemi del villaggio” beffarda e, se vogliamo, crudele che compensa, senza realmente compensarla, la sorte infausta di storie dolorose e tristi vicissitudini, quasi un contrappasso non certo voluto, sicuramente non meritato, rispetto alla “notorietà” ufficiale, con le sue nomenclature, i suoi vincenti, le sue profonde contraddizioni e incoerenze vestite di arroganza e mascherate di ipocrisia. 

Un tardo pomeriggio di una quindicina di giorni fa…
- “Nano!!!”…
Mi sono voltato sorpreso, appena sceso di auto di ritorno dal lavoro, in una torrida giornata di agosto… Solo una persona mi chiama così, una persona che era un paio di anni almeno che non vedevo più in giro, senza essere per altro riuscito ad avere mai la benché minima notizia sui motivi di questa “scomparsa”…
- “Mario!!!… Dio mio che gioia vederti!!! Ero molto, molto preoccupato… Non t’avevo più visto in giro, non sapevo nulla, senza nemmeno la possibilità di chiedere a qualcuno!!! Ma dimmi, che t’è successo?”
- “Sono stato male, acqua nei polmoni”
- “Sì, mi ricordavo che eri stato in ospedale anche ad Arezzo, ma sei poi peggiorato?” 
- “Sì, mi hanno mandato in un ospedale nel nord, ci sono stato tutto questo tempo, però ora sto bene!”
- “Davvero! Mi sembri proprio in ottima forma e di aspetto decisamente buono! Ma lo sai che oggi è una giornata magnifica, averti rivisto e così ben messo non immagini la contentezza che mi dà”
- “Grazie, grazie… Anche a me fa piacere…”
- “Allora adesso ci possiamo rivedere qua e là come prima!!!”
- “Sì, sì…”
- “Meno male!!! Ti saluto Mario!”
- “Ciao Nano, ah la tu’ mamma come sta?”
- “Bene, grazie, è al mare a fare la pensionata di lusso dai primi di luglio, capito la signora?”
- “Eh, fa proprio bene, salutamela tanto!”
- “Senz’altro!”...

Questa fu la prima e l’ultima volta che ho visto, dopo la sua lunga assenza, Alessandro Cardicchi, detto Marione. Il 13 agosto scorso, in un afoso, grigio lunedì di mezza estate, ne hanno trovato il cadavere nella casa popolare in cui viveva, deceduto, come ha stabilito poi l’autopsia, da almeno 5 giorni per un arresto cardio-circolatorio, in attesa che gli esami tossicologici e istologico diano ulteriori chiarimenti circa le cause della morte. Marione è morto e nessuno ci aveva fatto caso… Solo perché non rispondeva più al cellulare e nessuno l’aveva più visto da qualche giorno, qualcuno forse a lui per avventura più vicino di altri si è insospettito, fino alla macabra scoperta… Nell’occasione del nostro incontro, ricordo ancora il commiato, quando un ultimo, sdentato sorriso illuminò nel saluto quel faccione segnato da cinquant’anni di devastante tossicodipendenza, di chissà quali prostrazioni psicologiche e fisiche, di una giovinezza e una maturità consumati fra eroina, reati vari, sigarette, metadone, SERT, ospedale e carcere, riprese e ricadute, speranza d’uscire dal tunnel e disperazione di chi sa che non potrà, di fatto, mai uscirne perché la vita con alcuni, è noto, è madre e con altri matrigna, e quando vuole ci si impegna bene a fare guasti, specie se ci mettono del loro i cosiddetti “amici”, che prima ti sfruttano, poi ti illudono, poi ti deludono quando meno te lo aspetteresti, quando meno ne avresti bisogno perché maggiore è la tua fragilità.
C’è chi pensa che delinquenti si nasce, quasi una predestinazione genetica senza speranza: a che cosa serve dare una, due, tre possibilità… A nulla: “L’ha nel sangue, non cambierà mai!!!”… Ma forse, le cose non stanno proprio così… Forse un lavoro che non costringa a vivere di umiliazioni ed espedienti, del paio d’euro elemosinati a mezza voce per un panino o un caffè (se non per fare la somma sufficiente da sputtanare nella solita “dose”), che ti dia almeno una parvenza di vita “normale” e “regolare” dopo tanta, troppa emarginazione, “anormalità”, è solo un misero, minimo, per quanto importante, inizio… Ci vuol ben altro per la “redenzione” vera, quella definitiva, da cui non si torna indietro… Tempo, costanza, fiducia, forza, minaccia, magari violenza… Ma tutto questo non serve comunque se prima di ogni altra cosa non c’è un presupposto indispensabile, ossia l’amore. Non so quanto e come Mario ne abbia ricevuto… Non credo proprio tanto, o abbastanza adeguato da evitarne la triste parabola… Ma di certo aveva da darne, questo sì. Quella figura goffa e gaglioffa, sporca e maleodorante, balorda e inaffidabile, coperta di trucidi tatuaggi da detenuto, con un suo deformato codice d’onore (il rispetto orgoglioso e vagamente eroico di una strenua omertà verso chi, falso amico, lo usava per i suoi fini illeciti, anche a costo di aggravare la propria posizione penale), una sera mi commosse particolarmente. Ero all’epoca responsabile dell’ufficio esteri di una ditta con sede nella provincia di Arezzo e Mario era stato “arruolato” dai titolari come folkloristico guardiaspalle e uomo di fatica, di quelle cose che spesso chi presume di avere, a vario titolo, una certa posizione di potere, fa un po’ per interessata filantropia, un po’ per esibizionismo, un po’ per divertimento… Siccome abitava nel mio stesso quartiere e, per i suoi conti ancora aperti con la giustizia e la società, non aveva la patente, capitava che gli dessi un passaggio verso casa la sera. Durante questi brevi tragitti ebbi modo di creare con lui un contatto che superò la mia istintiva diffidenza, con la conseguenza di accorciare le distanze fra di noi. E mi colpì in particolare una volta, appunto, in cui io parlavo di mia madre, una donna “normale”, e del mio rapporto "normalmente" problematico con lei. Ad un certo punto, fra il rassegnato e il sommesso, con la sua voce rauca e il suo parlare impastato, Mario iniziò a rammentare la propria madre, alla quale doveva il soprannome medesimo, lasciandosi andare al sofferto ricordo della sua atroce fine: abbandonata con la gola squarciata in un bosco, nei pressi del quale esercitava da sempre il mestiere più antico del mondo, quel mestiere che le aveva donato una squadra di figli e un tale squallido destino. E il dolore diventò rabbia sconsolata e impotente quando urlò contro l’ingiustizia degli inquirenti, tanto pronti a “castigare” i poveracci perduti come lui, quanto ad archiviare il caso senza troppi affanni per chi, dato quel tipo di “lavoro”, avrà di certo pagato per lo sgarro a qualcuno che non doveva “toccare”… Del resto, un destino comune, no? Ma per Mario lei era solo sua madre, e una madre è una madre, anche se è “diversa” e se per questa diversità le è stata, alla fine, negata giustizia. Fu agghiacciante quando mi raccontò che, alla notizia dell’archiviazione del caso, cercò lui stesso per la disperazione di farla finita dicendo, forse con infantile esagerazione, di essersi iniettato un “ramaiolo di roba”… Da allora, prese a chiedermi con frequenza di mia madre, di come stava e di salutarmela, accompagnando i saluti talvolta con la raccomandazione di “comportarmi bene”, specie dopo che un giorno, incontrandolo per caso in compagnia di lei, finalmente gliela presentai… 
Forse questo ricordo, alla fine, vuole denunciare e autodenunciare l’indifferenza che a troppi Mario riserviamo ogni giorno, esaltando il nostro altruismo con la monetina d’occasione, o con la pacca sulle spalle, magari con un pensiero affettuoso, ma senza preoccuparci minimamente se e come potere andare oltre e aiutare veramente… Forse è pure facile scrivere adesso belle parole e tacitarsi la coscienza quando ormai non ci possiamo più far niente, sebbene ti rimordano e ti facciano provare vergogna di te stesso episodi come quello in cui titubavi a stringere una mano deturpata da buchi e sporcizia… O forse mi mancherà davvero quella figura goffa e gaglioffa, con il suo sdentato sorriso e i suoi saluti a mia madre…

martedì 14 agosto 2012

A te che c'eri, a te che sai...

Danzano molli
le tende
sulla tua nudità languente,
mosse leggere
dalla timida brezza
del primo mattino,
che le tue membra
dormienti
culla e carezza...
In silenzio t’osservo:
nell’onda increspata
e disfatta
da una tenera guerra,
un giunco
sinuoso ed inerte...
Appena, pudìco,
un lembo
fascia i tuoi fianchi,
senza celare
distratto
la protervia dei seni,
protési come
musetti curiosi
di leggiadri cerbiatti
al richiamo del vento...
Vorrei ancora
la grazia
d’un audace
sussulto, un fremito caldo
che uccida
per sempre il freddo
di quest’uomo
ramingo...



mercoledì 4 luglio 2012

Maxence Fermine, L'apicoltore, Bompiani 2002: Impressioni di lettura

Aurélien Rochefer, il protagonista del romanzo, è un ragazzo che vive con il nonno nella Francia meridionale di fine ‘800, dove la fioritura, il raccolto e il commercio della lavanda scandiscono la placida e serena vita del paesello in cui è nato e risiede. Aurélien insegue da sempre un sogno, quello di cercare l’oro come ideale di amore per la bellezza della vita, ciò che non a caso non significa per lui avidità di ricchezze, bensì realizzazione di un alveare, perché le api rappresentano, con il loro colore, la loro dedizione ai fiori, l’ambrato frutto del loro lavoro instancabile, la più compiuta espressione di tale aspirazione. Un sogno, un amore che, nel giovane, si intreccia e si confonde con l’attrazione per una ragazza del paese, Pauline, la quale ricambia le sue attenzioni in un gioco di innocente seduzione. La distruzione accidentale dell’alveare, la visione ammaliante di una misteriosa donna bruna dalla pelle dorata che gli provoca un’infatuazione quasi ossessiva, l’inquietudine che lo spinge a non indugiare nella sua ricerca, inducono però Aurélien a lasciare tutto e a partire per terre lontane, lo Yemen e di lì l’Africa, dove varcherà le aride e infernali terre della Dancalia, in Abissina, fino alla regione di Harar, un viaggio in certo senso iniziatico, nel quale conoscerà svariati personaggi e situazioni, fino ad incontrare la misteriosa e sensuale donna dalla pelle d’oro: una sorta di sacerdotessa/regina, a capo di una comunità che raccoglie il miele nella inaccessibile Rupe delle api, montagna ritenuta sacra e non violabile da estranei. Sarà lei che farà conoscere al ragazzo le delizie erotiche del talamo, lasciandogli un prezioso omaggio prima di scomparire inopinatamente con la propria gente. L’impossibilità di far continuare oltre il suo aureo progetto di amore e bellezza vitale lo riporterà, attraverso altre provanti esperienze, al paese di origine per realizzarvi una ciclopica, quanto temeraria opera capace di dare senso e ragion d’essere al suo sogno: Apipoli, la città delle api, destinata nondimeno ad un ennesimo, colossale fallimento per un beffardo scherzo di natura. Ormai in rovina e pieno di debiti, privo per giunta di tutti gli affetti, dopo la morte del nonno e la rottura della promessa d’amore fatta a Pauline prima della sua partenza per l’Africa, a causa della sua passione per la donna conosciuta e amata in Abissinia, troverà finalmente il coronamento del suo vagheggiato sogno proprio nell’amore di Pauline che, nonostante tutto, è riuscito a sopravvivere e a veder premiata la sua dedizione, nonché nella pertinace volontà di non desistere comunque dalla sua “vocazione” di apicoltore.
             Il Sogno e la Realtà: variazione sul tema, potremmo sintetizzare il senso di questa graziosa favola, vincitrice del Premio Murat 2001, dove la ferrea volontà di inseguire e realizzare il primo (la ricerca dell’oro, che le api con il loro mondo disciplinato, magicamente misterioso, dai colori del sole, incarnano come simbolo di grazia e bellezza fatale) con quasi sfrontata determinazione, con un’audacia che non indietreggia neppure dinanzi agli ostacoli più duri e alle difficoltà più impervie, con un furor capace di imprese disperate e folli, pare puntualmente scontrarsi e ineluttabilmente naufragare con l’aleatoria, beffarda, imprevedibilità della seconda, ma solo per trarne la più banale, e tuttavia proprio per questo fondamentale, delle morali: non cercare troppo lontano ciò che è e hai sempre avuto accanto a te.
Potremmo anche tentarne una lettura allegorica, una sorta di percorso iniziatico, che attraverso le tappe circolari di una cartarsi onirica, porta l’individuo ad un livello di coscienza e consapevolezza mature, in cui l’Essere si realizza al fuori della illusoria e fascinosa sicumera di speciosi specchi ustori, di peregrini Eldoradi fascinosi, ma esiziali come insidiosi canti di sirena.
Una simile lettura potrebbe trovare sostegno sul carattere simbolico di alcuni elementi enucleabili dal contesto… Penso, ad esempio, uno fra tutti, alla ricorrenza quasi programmatica del numero sette che, come noto, ha una valenza numerologica atta a rappresentare il compiuto equilibrio ed il perfezionamento della natura umana… Ma qui il discorso porterebbe lontano, ben al di là di queste corsive osservazioni di mediocre lettore, e forse ben oltre le intenzioni stesse dell’autore...

mercoledì 1 febbraio 2012

Nevica, nevica...












Nevica, nevica...
Ed io qui, inebetito, inerte,
niente lavoro, apatico, pigro, niente
di niente... Guardo...
Nevica, nevica...
Fuori il mondo, nessuno, lunare
fra i vaghi silenzi, ed immane
un sepolcro danzante
di gelida calce,
tanto leggiadro cade
quanto pesante
resta...
Nevica, nevica...
Ed io mi trasformo, nel gelo di questo
bianco morire...
A Franz l'orrida blatta,
a me l'idiota omino di neve,
a noi l'ennesimo angosciante dilemma:
schiacciati o squagliati?
E nevica, nevica...