E finalmente ti ho conosciuto, nonno… Finalmente… Mai avverbio fu più appropriato di questo, considerata la circostanza del nostro rendez-vous… L’unico dei miei nonni che non ho mai visto, se non in qualche foto ingiallita e nei racconti di tua moglie e di tua figlia, più di tua figlia, visto che la nonna parlava di te poco, anche se sempre con grande, contenuto affetto… Ricordo, in particolare, un paio di frasi che era solita dire in occasione della data della tua nascita e di quella della tua morte, puntuali quasi fossero una necessità liturgica, un atto doveroso di celebrazione e memoria: “Oggi è ‘l compleanno del tu’ nonno” / “Oggi sono vent’anni ch’è morto il tu’ nonno Norino … Quant’ha patito, parino!”, cantilenando le parole finali, con lo sguardo che si perdeva per qualche attimo nella mestizia di chissà quale frammento di ricordo.
Sei morto, in effetti, prima che io nascessi e che tua figlia e mio padre si sposassero…
Di te so poche cose, ma quelle scarne notizie ti hanno reso nella mia fantasia di nipote postumo una figura ineffabile, sicuramente un importante tassello mancante nel groviglio delle mie radici familiari, con la curiosità insoddisfatta di indovinare come sarebbe stato se ti avessi conosciuto, se mi avessi cresciuto, e di sentire un’innata simpatia e congenialità per quel tuo sguardo profondo ed enigmatico, quell’espressione buona e vagamente ironica, che in tutte le tue residue immagini traspaiono, attraverso le fasi della tua non lunga vita…
Dalle foto e dalle parole di mamma so che mi hai lasciato in eredità il taglio degli occhi, la fronte, la stempiatura e i capelli, alcune attitudini, ad esempio la facilità ad abbronzarmi, e certi comportamenti… So che dei tuoi quattro fratelli superstiti (ti avevano chiamato Norino – ma non ne ho mai capito l’attinenza se non per la sillaba iniziale - perché eri il nono di una serie di figli, di cui solo quattro erano sopravvissuti alla nascita o alla primissima infanzia) eri il terzo, dopo lo zi’ Fano (Stefano), lo zi’ Mimi (Settimio) e prima dello zi’ Gigi, che, al par tuo, non ho mai conosciuto… Anche se, a dire il vero, non sono proprio sicuro che tu fossi il terzo o il quarto… E non c’è più nessuno ormai che mi risolva il dubbio…
So che eri, a modo tuo e per il periodo in cui hai vissuto, un uomo un po’ fuori dalle righe, che parlava poco e praticava la “filosofia” del vivi e lascia vivere… A differenza dei tuoi fratelli, più seriosi, morigerati e moralisti, ingerenti e calati nelle funzioni familiari che il gruppo patriarcale in cui tutti vivevate con le proprie mogli e con un figlio ciascuno, facendo i coltivatori diretti, di necessità assegnava: a Fano, il fratello maggiore, toccava per questa prerogativa anagrafica di diritto la parte del capoccia, ma era un omone troppo buono e permissivo per svolgerla di fatto; alla moglie Vittoria, che i racconti vogliono una donna piccola di statura e magrissima di corporatura, spettava, di conseguenza, il ruolo di massaia nel quale, al contrario del marito, si trovava perfettamente calata e che esercitava con rigore e autorità; Mimi era il vero capo famiglia, uomo duro, intransigente, severo e irascibile, attentissimo nel gestire l’economia domestica e nel voler fare rispettare le regole del gruppo (che erano in realtà le “sue” regole); a parti invertite rispetto alla coppia Fano e Vittoria, la moglie Quinta era invece l’esatto opposto: una donnina placida, radiosa e dolcissima; Gigi esprimeva il proprio occasionale disappunto girandosi di spalle durante i pasti comuni, senza però avere il coraggio di andare oltre un gesto tanto simbolico, quanto vano; della moglie Giuseppa, detta Beppa, ricordo che era una brava donna, tranquilla e semplice. Tu, invece, te ne fregavi del mondo; tacevi, non ti impicciavi, e lasciavi ai fratelli e alle cognate liti e battibecchi, ti caricavi la tua parte di lavoro, ma per il resto facevi quello che ti andava di fare, come e quando ti pareva, senza che nessuno ne avesse da ridire.
Ti piacevano le donne e mamma, con bonario fare di rimprovero, laddove nonna tendeva a minimizzare e sorvolare, era solita ricordare l’episodio di quando portasti a casa una “amica” che era, a detta tua, in difficoltà e aveva bisogno di ospitalità per qualche giorno, e l’avevi messa a dormire con lei e la nonna, salvo che poi ti beccarono i tuoi fratelli con la signora in questione nel fienile ad esercitare i tuoi doveri di ospite ben oltre il dovuto!
Amavi giocare a carte e vincevi spesso, tanto che a mamma avevi anche regalato una bicicletta con i soldi del gioco, e a quei tempi ciò significava permettersi un gran lusso… A volte venivano con te la nonna e la mamma allora bambina, perché spesso c’era chi portava una fisarmonica e qualche altro strumento e si improvvisava una serata danzante: a te non piaceva il ballo, ma a nonna sì. Così ne approfittavi per farla ballare quanto e con chi voleva, mentre te ne potevi stare indisturbato a giocare, senza rotture di sorta!
Non ti appassionava la danza, però amavi cantare, passione che avevi trasferito a mamma, e una delle tue canzoni preferite era “Vivere” di Cesare Andrea Bixio, manco a caso! Eri, per altro, un burlone, che non aveva nemmeno problemi a “scherzare” mettendo in bella mostra le proprie “vergogne”, esattamente come me! Anche qui mi sovviene un racconto di nonna e mamma, che scuotevano la testa sorridendo ed esclamando quanto eri “matto”, quando un giorno, tutti voi con altri vicini intenti a lavorare nei campi, una delle donne si assentò per andare a fare i suoi bisogni in un fosso lì appresso; a te venne improvvisamente il ruzzo e offristi alla sudata platea un momento di maliziosa ilarità, seguendola piano piano, attendendo che abbassasse le vesti e che si accovacciasse, e saltando dunque fuori all’improvviso, a pantaloni giù e con l’arnese di fuori, così che la poveretta si mise a correre a perdifiato e a tu ad inseguirla, urlando fra i coltivi a braghe calate, fra le risate dei presenti.
Ti chiamavano da piccolo “Gambescia”, poiché avevi imparato a camminare tardi e da solo ed inizialmente lo facevi trascinando le gambe. Un altro racconto dimostra come tu fossi già allora un po’ canaglia, anzi, come diceva la mamma, “lo spirito della contraddizione”! Quando, appunto bambino, tuo nonno ti voleva mandare all’appalto (così era chiamata la bottega della frazione che faceva da bar, tabacchi, alimentari, sala da gioco, da ballo e da ritrovo) a prendere non so se le sigarette o i fiammiferi, apostrofandoti con quel nomignolo. E tu, per dispetto, continuavi a farti gli affari tuoi senza “dargli udienza”, per dirlo con le parole di nonna. Allora il vecchio chiese ad un vicino di provare lui, per proprio conto, a chiedere il favore e tu subito scattasti con il tuo piede strascicante per accontentarlo!
Tu e nonna eravate l’unica coppia, delle quattro che formavano il nucleo familiare, ad avere avuto una femmina. Adoravi tua figlia, e l’avresti voluta maestra, una delle professioni che negli anni immediati del dopoguerra era considerata fra quelle che significavano uno stipendio buono e sicuro e una collocazione sociale di rispetto e riguardo.
Per farla studiare avresti fatto ogni sacrificio, ma lei non aveva la vocazione dello studio e ti toccava, anzi, accompagnarla a scuola tutte le volte, e non era infrequente, che prendeva delle punizioni. Si rivolgeva a te, il genitore “buono”, visto che la nonna non aveva la tua stessa indulgenza e non gliela avrebbe certo fatta passare liscia! E ti prestavi non solo con mamma, perché a te si appellava anche Benedetto, il figlio di Mimi, lo scavezzacollo di famiglia, quando marinava la scuola, affinché tu ti facessi passare con gli insegnanti per suo padre, il quale non gli avrebbe risparmiato, al contrario, ben altro trattamento.
Per quanto potevi, non facevi mancare nulla alla mamma e la difendevi da tutto e tutti, pure un po’ troppo forse! Una volta, ricoverato in ospedale ad Arezzo, tua figlia ti assisteva e ti faceva le notti, alternandosi con la nonna. Là, poco più che ragazzetta, conobbe un giovane militare di leva, proveniente da Pisa, che faceva nella vita civile il barbiere o il macellaio, non rammento, e assisteva anche lui un commilitone degente. Fra i due ragazzi nacque un’amicizia e un’innocente intesa che si concretizzarono nello scambio di indirizzi e nella promessa di scriversi. Tornati a casa, mamma aspettò invano una lettera del soldatino, e pensò che fosse stata un po’ una promessa da marinaio. Ma dopo molto tempo, da nonna, scoprì che invece erano arrivate diverse lettere, che tu candidamente buttavi via senza manco aprirle perché dicevi che era meglio avere un morto in casa che un Pisano alla porta! Sì, lo so, tu dirai che facevi così per proteggerla ed è vero che i Pisani Dio ci scampi e liberi, però nonno… Dai!!! Invece, un’altra volta, mentre la nonna non c’era e tu stavi a letto afflitto dalla malattia che ti avrebbe poi portato via, mamma fu inseguita dallo zi’ Mimi sulle scale con l’intento di picchiarla, per la sola colpa di essersi messa a stirare fuori dagli orari deputati secondo le “famose” regole di casa per il consumo dell’energia elettrica (l’aveva visto dal contatore che girava nonostante dovesse essere tutto spento, durante una delle sue “ronde” di controllo); impaurita, corse da te per trovare protezione, e tu con le poche forze che avevi ti alzasti dicendo qualcosa tipo “E ‘n te mena, ‘n te mena, sta’ tranquilla!” e così fu, ché Mimi arretrò dinanzi a quel padre malato, ma pronto a tutto pur di difendere la figlia.
Per certi aspetti eri apparentemente un po’ contraddittorio, dal momento che ogni tanto il tuo spirito tollerante e guascone cedeva il passo all’esser figlio dei tuoi tempi e partecipe di un moralismo di maniera che le convenzioni della società di allora imponeva. Sorvoliamo, nondimeno, sul fatto che sposasti nonna già incinta di te, cosa che lei non amava mai molto ricordare, un po’ per bigottismo, un po’ perché, forse, nata e cresciuta in una famiglia molto povera, mentre a voi non mancava nulla pur sgobbando tutti i giorni sui campi, doveva aver vissuto l’evento in modo forse non proprio sereno, dati i tempi e tanto più che per la sua indigenza e mancanza di dote era invisa ai tuoi fratelli. Ma tu non ti sottraesti alle tue responsabilità, e da una foto di voi due che vi guardate al mare con tenerezza, posso pensare che in realtà quella gravidanza era frutto non di un’avventatezza, bensì di un sentimento reale che vi univa e che vi aveva fatto abbassare la guardia. Ma con tua figlia non eri altrettanto moderno e quando te la vedesti tornare con i capelli color biondo platino, la rincorresti tutto intorno alla tavola senza poi, in realtà, farle nulla… Ma dovevi recitare la parte del genitore severo, anche forse e soprattutto agli occhi dei fratelli… Il tuo show lo volesti fare anche in un’altra occasione, quando mamma e un’amica conobbero dei distinti giovanotti di città, uno dei quali mamma ricordava avere i capelli già un po’ brizzolati. I due vennero in campagna per “filare” con le due ragazze, ma non so come, tu fiutasti la cosa e, inforcata la bici e visti i quattro da lontano, per altro in luogo aperto e pubblico, iniziasti a sbraitare, facendo scappare le due ragazzette per la vergogna e lasciando basiti i giovanotti.
So che eri, a modo tuo e per il periodo in cui hai vissuto, un uomo un po’ fuori dalle righe, che parlava poco e praticava la “filosofia” del vivi e lascia vivere… A differenza dei tuoi fratelli, più seriosi, morigerati e moralisti, ingerenti e calati nelle funzioni familiari che il gruppo patriarcale in cui tutti vivevate con le proprie mogli e con un figlio ciascuno, facendo i coltivatori diretti, di necessità assegnava: a Fano, il fratello maggiore, toccava per questa prerogativa anagrafica di diritto la parte del capoccia, ma era un omone troppo buono e permissivo per svolgerla di fatto; alla moglie Vittoria, che i racconti vogliono una donna piccola di statura e magrissima di corporatura, spettava, di conseguenza, il ruolo di massaia nel quale, al contrario del marito, si trovava perfettamente calata e che esercitava con rigore e autorità; Mimi era il vero capo famiglia, uomo duro, intransigente, severo e irascibile, attentissimo nel gestire l’economia domestica e nel voler fare rispettare le regole del gruppo (che erano in realtà le “sue” regole); a parti invertite rispetto alla coppia Fano e Vittoria, la moglie Quinta era invece l’esatto opposto: una donnina placida, radiosa e dolcissima; Gigi esprimeva il proprio occasionale disappunto girandosi di spalle durante i pasti comuni, senza però avere il coraggio di andare oltre un gesto tanto simbolico, quanto vano; della moglie Giuseppa, detta Beppa, ricordo che era una brava donna, tranquilla e semplice. Tu, invece, te ne fregavi del mondo; tacevi, non ti impicciavi, e lasciavi ai fratelli e alle cognate liti e battibecchi, ti caricavi la tua parte di lavoro, ma per il resto facevi quello che ti andava di fare, come e quando ti pareva, senza che nessuno ne avesse da ridire.
Ti piacevano le donne e mamma, con bonario fare di rimprovero, laddove nonna tendeva a minimizzare e sorvolare, era solita ricordare l’episodio di quando portasti a casa una “amica” che era, a detta tua, in difficoltà e aveva bisogno di ospitalità per qualche giorno, e l’avevi messa a dormire con lei e la nonna, salvo che poi ti beccarono i tuoi fratelli con la signora in questione nel fienile ad esercitare i tuoi doveri di ospite ben oltre il dovuto!
Amavi giocare a carte e vincevi spesso, tanto che a mamma avevi anche regalato una bicicletta con i soldi del gioco, e a quei tempi ciò significava permettersi un gran lusso… A volte venivano con te la nonna e la mamma allora bambina, perché spesso c’era chi portava una fisarmonica e qualche altro strumento e si improvvisava una serata danzante: a te non piaceva il ballo, ma a nonna sì. Così ne approfittavi per farla ballare quanto e con chi voleva, mentre te ne potevi stare indisturbato a giocare, senza rotture di sorta!
Non ti appassionava la danza, però amavi cantare, passione che avevi trasferito a mamma, e una delle tue canzoni preferite era “Vivere” di Cesare Andrea Bixio, manco a caso! Eri, per altro, un burlone, che non aveva nemmeno problemi a “scherzare” mettendo in bella mostra le proprie “vergogne”, esattamente come me! Anche qui mi sovviene un racconto di nonna e mamma, che scuotevano la testa sorridendo ed esclamando quanto eri “matto”, quando un giorno, tutti voi con altri vicini intenti a lavorare nei campi, una delle donne si assentò per andare a fare i suoi bisogni in un fosso lì appresso; a te venne improvvisamente il ruzzo e offristi alla sudata platea un momento di maliziosa ilarità, seguendola piano piano, attendendo che abbassasse le vesti e che si accovacciasse, e saltando dunque fuori all’improvviso, a pantaloni giù e con l’arnese di fuori, così che la poveretta si mise a correre a perdifiato e a tu ad inseguirla, urlando fra i coltivi a braghe calate, fra le risate dei presenti.
Ti chiamavano da piccolo “Gambescia”, poiché avevi imparato a camminare tardi e da solo ed inizialmente lo facevi trascinando le gambe. Un altro racconto dimostra come tu fossi già allora un po’ canaglia, anzi, come diceva la mamma, “lo spirito della contraddizione”! Quando, appunto bambino, tuo nonno ti voleva mandare all’appalto (così era chiamata la bottega della frazione che faceva da bar, tabacchi, alimentari, sala da gioco, da ballo e da ritrovo) a prendere non so se le sigarette o i fiammiferi, apostrofandoti con quel nomignolo. E tu, per dispetto, continuavi a farti gli affari tuoi senza “dargli udienza”, per dirlo con le parole di nonna. Allora il vecchio chiese ad un vicino di provare lui, per proprio conto, a chiedere il favore e tu subito scattasti con il tuo piede strascicante per accontentarlo!
Tu e nonna eravate l’unica coppia, delle quattro che formavano il nucleo familiare, ad avere avuto una femmina. Adoravi tua figlia, e l’avresti voluta maestra, una delle professioni che negli anni immediati del dopoguerra era considerata fra quelle che significavano uno stipendio buono e sicuro e una collocazione sociale di rispetto e riguardo.
Per farla studiare avresti fatto ogni sacrificio, ma lei non aveva la vocazione dello studio e ti toccava, anzi, accompagnarla a scuola tutte le volte, e non era infrequente, che prendeva delle punizioni. Si rivolgeva a te, il genitore “buono”, visto che la nonna non aveva la tua stessa indulgenza e non gliela avrebbe certo fatta passare liscia! E ti prestavi non solo con mamma, perché a te si appellava anche Benedetto, il figlio di Mimi, lo scavezzacollo di famiglia, quando marinava la scuola, affinché tu ti facessi passare con gli insegnanti per suo padre, il quale non gli avrebbe risparmiato, al contrario, ben altro trattamento.
Per quanto potevi, non facevi mancare nulla alla mamma e la difendevi da tutto e tutti, pure un po’ troppo forse! Una volta, ricoverato in ospedale ad Arezzo, tua figlia ti assisteva e ti faceva le notti, alternandosi con la nonna. Là, poco più che ragazzetta, conobbe un giovane militare di leva, proveniente da Pisa, che faceva nella vita civile il barbiere o il macellaio, non rammento, e assisteva anche lui un commilitone degente. Fra i due ragazzi nacque un’amicizia e un’innocente intesa che si concretizzarono nello scambio di indirizzi e nella promessa di scriversi. Tornati a casa, mamma aspettò invano una lettera del soldatino, e pensò che fosse stata un po’ una promessa da marinaio. Ma dopo molto tempo, da nonna, scoprì che invece erano arrivate diverse lettere, che tu candidamente buttavi via senza manco aprirle perché dicevi che era meglio avere un morto in casa che un Pisano alla porta! Sì, lo so, tu dirai che facevi così per proteggerla ed è vero che i Pisani Dio ci scampi e liberi, però nonno… Dai!!! Invece, un’altra volta, mentre la nonna non c’era e tu stavi a letto afflitto dalla malattia che ti avrebbe poi portato via, mamma fu inseguita dallo zi’ Mimi sulle scale con l’intento di picchiarla, per la sola colpa di essersi messa a stirare fuori dagli orari deputati secondo le “famose” regole di casa per il consumo dell’energia elettrica (l’aveva visto dal contatore che girava nonostante dovesse essere tutto spento, durante una delle sue “ronde” di controllo); impaurita, corse da te per trovare protezione, e tu con le poche forze che avevi ti alzasti dicendo qualcosa tipo “E ‘n te mena, ‘n te mena, sta’ tranquilla!” e così fu, ché Mimi arretrò dinanzi a quel padre malato, ma pronto a tutto pur di difendere la figlia.
Per certi aspetti eri apparentemente un po’ contraddittorio, dal momento che ogni tanto il tuo spirito tollerante e guascone cedeva il passo all’esser figlio dei tuoi tempi e partecipe di un moralismo di maniera che le convenzioni della società di allora imponeva. Sorvoliamo, nondimeno, sul fatto che sposasti nonna già incinta di te, cosa che lei non amava mai molto ricordare, un po’ per bigottismo, un po’ perché, forse, nata e cresciuta in una famiglia molto povera, mentre a voi non mancava nulla pur sgobbando tutti i giorni sui campi, doveva aver vissuto l’evento in modo forse non proprio sereno, dati i tempi e tanto più che per la sua indigenza e mancanza di dote era invisa ai tuoi fratelli. Ma tu non ti sottraesti alle tue responsabilità, e da una foto di voi due che vi guardate al mare con tenerezza, posso pensare che in realtà quella gravidanza era frutto non di un’avventatezza, bensì di un sentimento reale che vi univa e che vi aveva fatto abbassare la guardia. Ma con tua figlia non eri altrettanto moderno e quando te la vedesti tornare con i capelli color biondo platino, la rincorresti tutto intorno alla tavola senza poi, in realtà, farle nulla… Ma dovevi recitare la parte del genitore severo, anche forse e soprattutto agli occhi dei fratelli… Il tuo show lo volesti fare anche in un’altra occasione, quando mamma e un’amica conobbero dei distinti giovanotti di città, uno dei quali mamma ricordava avere i capelli già un po’ brizzolati. I due vennero in campagna per “filare” con le due ragazze, ma non so come, tu fiutasti la cosa e, inforcata la bici e visti i quattro da lontano, per altro in luogo aperto e pubblico, iniziasti a sbraitare, facendo scappare le due ragazzette per la vergogna e lasciando basiti i giovanotti.
Una volta, aprendo vecchie scatole, trovai un tuo quaderno, dove annotavi meticolosamente con mano malferma le spese della tua famigliola… Provai un gran senso di tenerezza e malinconia… Fra l’altro, posi mente a quando, dopo la guerra divise le proprietà coi fratelli, malato e non più dedito ai lavori agricoli, sbarcavi il lunario con un lavoretto, che a sentirlo definire dalla mamma, mi faceva chissà perché sorridere… Guardavi l’acqua! O meglio, avevi avuto l’incarico da un consorzio locale di controllare che i coltivatori non attingessero in maniera indebita le acque del Tevere per l’irrigazione. Mamma ti aiutava nella registrazione dei prelievi idrici e si beccò anche un ceffone in pieno volto dal gestore del consorzio per la sola colpa di avere fatto un errore di scrittura… Non rammento bene che cosa avvenne poi, so che protestasti, ma la tua vicenda umana era ormai al capolinea e serve a poco scandagliare oltre… Avevi una malattia che non ti dava tregua e non si sapeva manco benissimo di che cosa si trattasse… La nonna diceva che avevi iniziato a sentirti male dopo avere ricevuto un calcio sullo stomaco dalla cavalla che avevate fra il bestiame di famiglia, e che t’avevano “sbagliato un’operazione”, non so quale delle molteplici cui sapevo ti avevano sottoposto senza impedire che alla fine, dopo qualche anno, te ne andassi non senza aver sofferto il giusto, in una calda giornata di fine luglio, il 28 per l’esattezza, del 1961… Avevi 51 anni… Nato il 10 gennaio del 1910, in pieno inverno, 21 giorni prima che, passati 29 anni, nascesse tua figlia, te ne sei andato in piena estate, 14 giorni prima, a distanza di 60 anni, di tua figlia…
Venire a trovarti nella quiete del cimiterino di campagna dove eri sepolto è stato a lungo uno dei riti della giovinezza mia e di mio fratello, quando giungevamo per la commemorazione dei defunti che lì, a Santa Fiora, si faceva sempre, chissà perché, la domenica successiva a quella ufficiale del 2 novembre, e si radunavano parenti e amici vicini e lontani ed era l’occasione per grandi mangiate, rimpatriate, rivedere chi si era disperso per il mondo, fare la conta di chi ancora era fra noi e chi nel mondo dei più, mentre l’aria si impregnava di odore di incenso e crisantemi, i lumini facevano ballare le fiammelle nella bruma umida e grigia del meriggio autunnale e vibravano al cielo le cantilene delle donne snocciolanti i Misteri Dolorosi fra il brusio biascicato degli ora pro nobis…
E oggi siamo ancora lì, per un’ultima volta forse… La stragrande maggioranza di quei volti che vedevamo vivi e sorridenti, adesso figura nelle foto ricordo delle lapidi… E quello che resta di te è in quell’ammasso contorto di lamiere di zinco, ossa brune e umide e stracci… Per la burocrazia, come c’è un termine per il tempo della vita, ne esiste pure uno per quello della morte… Ed è ora il momento di lasciare questa dimora: degli operai incaricati dal Comune depongono con silente compostezza le tue spoglie in un’urnetta che andrà con nonna, tua moglie, ad Arezzo, non lontano da dove riposa tua figlia… Di nuovo tutti e tre insieme… E a noi resta il fardello di un’esistenza che toglie sempre troppo per quello che dà…
Venire a trovarti nella quiete del cimiterino di campagna dove eri sepolto è stato a lungo uno dei riti della giovinezza mia e di mio fratello, quando giungevamo per la commemorazione dei defunti che lì, a Santa Fiora, si faceva sempre, chissà perché, la domenica successiva a quella ufficiale del 2 novembre, e si radunavano parenti e amici vicini e lontani ed era l’occasione per grandi mangiate, rimpatriate, rivedere chi si era disperso per il mondo, fare la conta di chi ancora era fra noi e chi nel mondo dei più, mentre l’aria si impregnava di odore di incenso e crisantemi, i lumini facevano ballare le fiammelle nella bruma umida e grigia del meriggio autunnale e vibravano al cielo le cantilene delle donne snocciolanti i Misteri Dolorosi fra il brusio biascicato degli ora pro nobis…
E oggi siamo ancora lì, per un’ultima volta forse… La stragrande maggioranza di quei volti che vedevamo vivi e sorridenti, adesso figura nelle foto ricordo delle lapidi… E quello che resta di te è in quell’ammasso contorto di lamiere di zinco, ossa brune e umide e stracci… Per la burocrazia, come c’è un termine per il tempo della vita, ne esiste pure uno per quello della morte… Ed è ora il momento di lasciare questa dimora: degli operai incaricati dal Comune depongono con silente compostezza le tue spoglie in un’urnetta che andrà con nonna, tua moglie, ad Arezzo, non lontano da dove riposa tua figlia… Di nuovo tutti e tre insieme… E a noi resta il fardello di un’esistenza che toglie sempre troppo per quello che dà…
Arezzo, 24 gennaio 2023